Si prendano due ghiaccioli dal freezer, li si pongano in un piatto, li si lascino lì mentre si legge:
L'acacia Nilotica, ovvero del Nilo, fiume quanto il Trigno ma un tantinello più gruss, è un albero abbastanza alto, che fa abbastanza ombra, abbastanza spinoso, abbastanza conosciuto nei tempi in medicina, quella medicina primordiale ancora un pizzico vicina alla magìa.
Utile per curare le ferite, l'essudato della corteccia era usato contro l'insonnia e il dolore. I frutti, se mangiati in quantità risultano esser velenosi. Nella giusta quantità, scacciano gli spiriti maligni.
Quell'estate papà era irrequieto.
Camminava in tondo come un cavallo ancora mai montato, chiuso nel recinto.
Lo guardavamo restandocene all'ombra di un'acacia, spinosa come diventava lui quando uno di noi, la mamma di norma, gli chiedeva cosa lo tormentasse.
Mio padre era un uomo di scienza, e di fede. Presente, pronto ad ascoltare e consigliare per il giusto verso. Si trattasse di costruire un accampamento, una casa al villaggio accanto all'oasi o calcolare una distanza e progettare un viaggio nel deserto. Aveva letto molti libri, in gioventù, libri di algebra, e seguito per anni in un tirocinio sfiancante un vecchio conciaossa a Basrah, una settimana di viaggio più a nord. Io non c'ero mai stata, una città non l'avevo mai vista. E nemmeno il mare.
Sapevo di avere un fratello, certo, mio nonno aveva avuto cura di raccontarmi fin da subito, appena raggiunta l'età della ragione, come realmente fossero andate le cose, ma al di là di ciò sentivo di avere un fratello. Gemello.
Nascosto da qualche parte nel deserto coi predoni che se l'erano portato via il giorno che assalirono la nostra carovana di ritorno dalla città.
Mio padre aveva provato a difenderci ma subito era caduto vittima di scimitarre tanto affilate quanto ricurve, e poi era toccato a mia madre. Io, tre anni appena, me ne restai nascosto in un doppio fondo del carro. Mia madre mi ci aveva subito spinto dentro appena accortasi del pericolo. Non fece in tempo con mio fratello. Se lo portarono via assieme al poco denaro guadagnato al mercato e alle stoffe prese in cambio delle galline.
Al pari di sapere di un fratello gemello che mi somiglia come una goccia d'acqua, so bene come le cose che ti accadono nella vita riescano a plasmarti e disegnarti come l'acqua fa con la roccia.
Le volte che ci penso diventa buio dentro e niente posso fare se non camminare, in tondo, senza requie. E starmene da solo a non sentire nessuno. Mi dicono che mi basti guardarti negli occhi per allontanarti, quando mi sento così. Mi dicono che è come se mi crescessero le spine addosso, come a un'acacia.
Mi chiamano Al-jabhr, il conciaossa, o il matematico ché la parola che ci definisce è la stessa.
Ho avuto un certo numero di allievi ai quali tramandare l'arte di aggiustare arti, ricomporre fratture, raddrizzare schiene piegate dal lavoro e fare calcoli, usare i numeri, cose immateriali, per comprendere le cose reali, quelle del mondo.
Qui nel deserto usiamo la stessa parola sia che si tratti di calcoli che di sistemare membra.
Al-jhabr
Algebra.
Ad ogni buon conto intendiamo comunque “mettere le cose a posto” ordinarle nuovamente di modo che ricomincino a funzionare
secondo un criterio noto forse solo al cielo
così come è stato il cielo, sicuro, a regalarmi l'allievo più capace che potessi avere al seguito.
Veniva dal deserto
asciutto
intelligente
anzi
acuto
come le spine di un'acacia.
Quell'estate mio marito era irrequieto.
Sarà stata la carestia, le capre e quella strana malattia che le ammazzava tutte, oppure non saprei dire.
Certe volte provavo a chiedergli cosa fosse a tormentarlo.
Si irrigidiva, respirava a tratti, come piccoli singulti, poi continuava a camminare, senza requie.
Altre volte mi ci sono solo seduta accanto, le volte che se ne stava a pensare sotto l'ombra dell'acacia, sperando mi dicesse qualcosa. Alla fine riuscivo solo a poggiare la testa sulla sua spalla e mi sembrava quasi il suo respiro si facesse regolare, ma non di più. O forse era l'acacia.
Quell'estate fu l'estate che partì per la città per cercare suo fratello.
Quell'estate fu l'estate che tornò senza più le mani.
C'è uno schema noto, un modello ricorrente nei racconti, attorno al quale si son scritti libri, narrate storie e girati film. Lo scambio di persona, l'errore e l'equivoco. Qui non si fa eccezione.
In due parole il conciaossa spinoso come un'acacia viene ingiustamente accusato di un furto in città, commesso viceversa dal fratello gemello omozigote. Cioè uguale.
E se è vero come è vero che la legge non ammette ignoranza spesso chi poi la applica, la legge, a causa dell'ignoranza commette errori.
Mai invece ne commette il boia, quello nze sbaja mai, si trattasse di staccare teste dal collo o mani dai polsi.
La pena prevista per i ladri.
Una pena per chi con quelle stesse mani aveva portato sollievo alle sofferenze altrui.
E alla pena si sostituì il dolore, già, perché una mano sensibile ne sente di più, e quello dell'arto fantasma è un dolore vero, reale. Costante.
Ogni tanto si guardava le mani dolenti ma quelle non c'erano più, così doveva ricorrere sempre più di frequente alla corteccia dell'acacia che mitigava quel dolore e gli concedeva qualche ora di sonno.
C'è un altro topos nei racconti, un altro elemento ricorrente, quello del viaggio. Meglio, del viaggio e del deserto, i quaranta giorni di Gesù, la vendetta di Beatrix di Kill Bill, l'incipit di Breaking Bad, Paris Texas di Wim Wenders e tante altre storie.
Anche in questo caso noi non si fa eccezione:
per ritrovar sé stesso o un po' di pace, per non sentire più il dolore oppure per morire.
Questo è il deserto, il significato simbolico, vivi se dentro hai ancora la voglia e torna migliore, torna pulito, torna più forte, torna pronto e accada pure quel che deve.
Era appena l'aurora quando se ne andò lasciando moglie e figlia, con sé solo acqua e frutti e corteccia d'acacia.
L'acqua e la corteccia terminarono dopo qualche giorno, ricominciò il dolore e urlò, nel deserto dove nessuno avrebbe potuto udirlo. Urlò e ancora urlò, così forte e così a lungo che infine cadde, esausto.
Mangiare frutti d'acacia in quantità provocava la morte, lo sapeva bene e così fece. Poi non sentì più nulla.
Lo scosse un brivido forte, era freddo, era notte, sentiva però voci e lamenti di cammelli. Infine sentì il dolore.
“Se ti fa male è segno che sei ancora vivo”
Questo il suo vecchio maestro diceva spesso ai suoi pazienti.
Riuscì ad aprire gli occhi, si guardò le mani. Era notte, buia e senza luna. Le sue mani erano lì, attaccate ancora ai polsi e risplendevano. Erano mani di luce.
Una carovana di mercanti lo aveva trovato, lo avrebbe curato, dissetato e nutrito. Nel buio avevano creduto di scorgere due luci tanto brillanti che li avevano guidati fin lì. Non c'erano luci, solo un uomo in fin di vita. Senza più le mani.
Mio padre non ha le mani. Mio padre era un conciaossa, un Al-jahbr.
Davanti la nostra casa, sul margine dell'oasi, all'ombra dell'acacia c'è sempre tanta gente. Gente strana.
Vengono dal deserto e dalla città. Vengono da tutto il califfato.
Vestono di stracci oppure seta, poveri, ricchi, mercanti e caprai, tutti parlano malamente, non parlano affatto oppure è come se non ti sentissero. Mamma dice che sono pazzi portati qui dai parenti affinché papà li guarisca.
Mio padre non ha più le mani ma certe volte sembra come poggiarle sulla testa di quegli sventurati e se ne sta lì, immobile, e pure loro. Certe volte si addormentano, anche.
Poi gli da tre piccoli frutti di acacia, quelli masticano lenti, si alzano dopo un po', parlano, comunque ci provano e a me dopo non mi sembrano più così strani.
Mamma dice che papà ha mani immateriali, mani fatte apposta per aggiustare cose immateriali pure loro. Mamma dice che con quelle mani adesso non può più aggiustare ossa. Però può aggiustare anime.
Proprio come mio padre l'acacia avrà pure le spine ma mi sa che è vera questa cosa che i suoi frutti scacciano gli spiriti maligni.
Quest'estate mio padre ha detto che mi porterà in città, a lezione dal vecchio Algebrista. Dice che se dovessi piacergli potrebbe pure prendermi come allieva. E comunque, anche se non dovesse essere, poi ha promesso che mi porterà a vedere il mare.
E adesso non mi dite che sono solo storie, che la matematica è un'altra cosa, che volete l'evidenza scientifica del mio fare il conciaossa. Di quale scienza parlate? Forse di quella che si basa su una matematica che vi obbliga a credere che uno più uno faccia sempre due?
No! Non è vero, non è così.
Un ghiacciolo più un ghiacciolo non fanno due ghiaccioli
il tempo e la forza di una storia
e resta solo
un'unica
piccola
pozzanghera.
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