26 novembre 2004

uno (un antefatto)

Anno ottocentottanta dopo cristo, all'incirca. Interno del molise. Passata l'alba.



Sulle rive del fiume Volturno nei pressi di Castel San Vincenzo, un frate, scalzo e magro, cerca ingredienti per le sue alchimie fra cespugli e rocce. Lento raccoglie alcuni rametti di una pianta che, dopo aver accuratamente esaminata, annusata, assaggiata, ripone nella piccola bisaccia legata alla vita. Un forte rumore lo scuote d'improvviso, si rialza guardando verso il monastero dietro la collina. Come un cane annusa l'aria, cercando con tutti i suoi sensi di capire cosa stia succedendo. Un secondo rumore, forte, come di schianto, seguito dall'approssimarsi di voci e grida, sempre più forti, sempre più vicine, allertano il frate e lo convincono a tornare verso il sentiero che conduce alla collina che separa il fiume dal monastero. Corre, salta cespugli e rocce, incurante dei rovi e dei cardi che gli feriscono le gambe, infine sul ciglio del sentiero, quando le grida, i rumori e le voci diventano ormai chiare, si ripara dentro un piccolo gruppo di arbusti fitto a sufficenza per nasconderlo. Il giorno che inizia dà luce abbastanza per vedere l'orrore. Le voci sono sempre più forti, incomprensibili, le urla sempre di meno, lo sfondo sonoro è fatto invece di lamenti, fiochi e lontani, e rumori di tonfi e schianti ovattati che il frate riconosce rabbrividendo e chiudendosi ancora un po' di più nella vegetazione. Riconosce Memmo, che corre spuntando da una curva del sentiero, Memmo che corre verso il fiume, scomposto e sconvolto, il contrario di come il frate aveva sempre visto il mastro vetraio Memmo, sereno e chino a disegnare e progettare grandi finestre per chiese e palazzi, con le immagini dei santi e degli angeli e tutti quei colori che cambiavano ad ogni ora del giorno, ad ogni stagione, a seconda della luce che le attraversavano. Memmo che ora corre, che ora cade, come fulminato dall'ira di déi malevoli. Raggiunto invece da una freccia alla schiena, il frate ora la vede, piantata alla base del collo, dopo averne sentito il rumore sordo, rumore di carne e di ossa e di sangue che scorre. Riconosce Memmo che ora ha smesso di muoversi e respirare, raggiunto infine dal suo assassino che lo gira con un piede, si china su di lui e strappa la piccola borsa di pelle legata alla cintura. Non conosce quell'uomo, tantomeno l'altro che arriva subito dopo, non conosce il loro idioma, nè i loro vestiti, non ha mai visto quei turbanti e non capisce cosa si stiano dicendo, ma impallidisce comunque, non possono essere altro che Saraceni. Arabi spietati e sanguinari, che saccheggiano, uccidono e fuggono, che attaccano e danno alle fiamme al servizio del duca vescovo di Napoli.

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