Per quanti i rossi del tramonto in Ottobre
tanti i sussulti di vertigine
si tuffano dentro, spargono attorno semi
irrequietezza, insicurezza, si ondeggia a mezz'altezza
Ti tengono la bocca chiusa malamente
come una vecchia tomba di famiglia
nel cimitero di un paese abbandonato, ormai.
Mi lasciano gli occhi ammassati come le auto di un deposito giudiziario
i miei cavi annodano il cielo calmo dell’autunno
i miei vetri in pezzi rimandano mille riflessi di sangue
le mie ruote, le tappezzerie, i meccanismi che restano
hanno visto la notte sollevarsi e ricadermi addosso
ammesso che lo fosse davvero
Magari era solo l’oscurità di un’ombra tra i muri e i cortili
o la poca luce di una stanza in cui è successo troppo.
Troppi i rossi, le ore e i giorni
troppi i rumori e la brutta musica che accompagna le danze al tramonto
So che non credi e tocca a me l’onere della prova, si scioglie il petto
gira regolare in un’orbita astrale tra la Terra e Marte
come una teiera celeste.
C’è da ripulire l’asfalto da tutto il senso
coprire pietosamente una sera distesa sul marciapiede.
Nascondere a chi passa i fori d’uscita.
13 ottobre 2017
9 ottobre 2017
skrt skrt skrt (dissing my own life)
Desiderare il benvenuto in quel mondo ipnagogico dove tutto succede sempre e ovunque, desiderio del campo fatto di onde che vanno e onde che vengono, onde che asincrone si scontrano con altre e creano vortici e passioni. Dove sei onda di onda e non importa se sei diretto verso scoglio che taglia o spiaggia che accoglie, in mille rivoli scivoli via, o pian piano t’assorbe.
La libreria qui vicino mi messaggia per avvisarmi dello sconto d'autunno, valido fino a mezzanotte poi la carrozza tornerà zucca e il cocchiere topolino. Basta libri per un po', ne ho tre cominciati e una certa (non modica) quantità pronta per l'inverno. E se non bastasse c'è Herzog che occhieggia in cima alla pila.
Poco meno che quattordicenne ma già preda di turbamenti, i miei amici più grandi mi portarono in un cinema d'essai a vedere Fatamorgana del grande maestro (Herzog, appunto)...sono rimasto segnato a vita, il giorno dopo, di domenica, per compensare andai a vedere "40° all'ombra del lenzuolo" con Edwige Fenech. Non mi fecero entrare perché non ancora maturo. Misteri.
Avrei dovuto da subito imparare l'arte di piegare cucchiai col pensiero.
Anche se il cucchiaio non esiste.
Mi piego all’arte di giornate spaesate e gonfie, tronfie portano in trionfo la mia resa
alzo bandiere
al vento poi mi poso e resto, a scrivere e tutto il resto, anche desiderare di essere stupido e superficiale, che rimane sempre un bell'esercizio. Desiderare. (Ridondo, rido a onda?)
Non odio niente...
sono complicato, certo,
ma non odio nessuno.
So solo che amare è altra storia.
12 settembre 2017
got hurt
Mai immischiarsi nelle consuetudini, nei pensieri assorti,
o tra due finestre. Questione di corrente.
Le parole elettriche non si scrivono
succedono, semplicemente
come il vento o un malessere che acceca
l’animo.
Oggi leggo malamente le nuvole nel cielo
e come un vento improvviso il mio stomaco (si) gira
gonfia la vela del mio cuore,
navigo in un giorno gremito di demoni
talmente assolato da sembrare l'inferno.
Stenderò un enorme sguardo sul letto
spianerò le pieghe e poi
le mie mani non esisteranno se non per nuotare
in un sogno abbagliante.
Luminoso di incubi attraenti
consueti, assorti. Elettrici.
art : : Sofia
on air : : koresma the overlook
21 agosto 2017
sabbia&coca-cola 2017 (GMTZ)
1 - Intro, QCVC 6 : : non sono mai cambiato
C'è un uomo, capelli bianchi e bastone sulle ginocchia, seduto sul ciglio di una strada di campagna. Quella che prima di scendere sugli orti incrocia la provinciale. Arrampicata alle sue spalle una capra, sola, girata a brucare la poca erba verde rimasta del terrapieno.
Uno lo sguardo nell'orizzonte, l'altra su quanto di più prossimo e urgente gli resta.
Non riesco a fermarmi e fare una foto. Sarebbe scortese, potrei distrarre il vecchio o spaventare l'animale. Trovo più rispettoso descriverla, la foto. Ognuno può immaginare quanto fredda sia la luce, al tramonto, quando il vento tira così forte.
2 - Quando vuoi : : Stringimi il cuore in un pugno
In tondo gira, attorno a un tombino, una coppetta di gelato vuota
spinta dal poco vento di giorni torridi.
Piena di formiche
rimangono aggrappate a residui appiccicosi cioccolato e vaniglia.
Golose o affamate, non cambia
ché più mangiano meno si tengono alle pareti.
Muoiono di vertigine, sazie, prima che il vento cessi del tutto.
3 - Preso male : : Faccio un incubo e lo continuo da sveglio
Ho il futuro in un sogno fuori fuoco
più che nei ricordi
lascio gocce sul comodino
pietre nei cassetti
sudori asciutti sul cuscino
Sul gradino di pietra dove mi siedo, al mattino
a guardare il bosco
lascio pelle morta
cellule d'odio che non ce l'hanno fatta, le più vecchie e stanche
Molecole che avrei dovuto sciogliere nel mare
ora restano incastrate tra le crepe fredde del granito.
Atomi di saggezza e rancore mi ricordano di
sapere che sapere è tutto sommato un piacere fine a se stesso.
Di alcuna utilità
non serve a viaggiare più veloci e comunque
ci si perde facile nel bosco
sul bosco
davanti a me l'ombra delle nuvole spinte dal vento ci disegna sopra
ci scrive in verde scuro
su foglie e sassi
sull'erba ci distendo uno sguardo in tralice
come volessi suggerire alla luce la giusta punteggiatura.
4 - Vado avanti : : Vogliono sedarti per riuscire a pestarti, ma noi restiamo in piedi
Al bosco gli racconto
gli dico di quanto pesino lacrime asciutte che non possono cadere giù
dei singhiozzi interrotti
sospiri mozzati
urla inascoltate.
Così ora sa dei passi incerti
di tremori senza fine.
Al bosco non importa cosa, quanto che.
Così si trasforma e mi guarda,
è un drago che m'incendia il cuore
schiude le uova del corvo.
Quello che mi ha fatto il nido nello stomaco.
Le parole volano fuori
oltre gli alberi e il cielo.
La voce vibra assieme ai fili d'erba e ai sassi.
Per ogni ramo, per tutte le foglie.
5 - Outro, Certe volte QCVC 6 : : è bene ricordare a chi parla che puoi avere tutti i soldi del mondo ma certe volte per stare a galla ancora bastano una voce, un piano e una chitarra.
Riposo all'ombra di un vecchio lenzuolo bianco tirato tra un tronco portato dalla mareggiata e un cespuglio di rosmarino.
Riposo finché ne ho per continuare a viaggiare.
Verso il sole
a passi lenti
ma regolari come il ticchettio di un orologio.
C'è un uomo, capelli bianchi e bastone sulle ginocchia, seduto sul ciglio di una strada di campagna. Quella che prima di scendere sugli orti incrocia la provinciale. Arrampicata alle sue spalle una capra, sola, girata a brucare la poca erba verde rimasta del terrapieno.
Uno lo sguardo nell'orizzonte, l'altra su quanto di più prossimo e urgente gli resta.
Non riesco a fermarmi e fare una foto. Sarebbe scortese, potrei distrarre il vecchio o spaventare l'animale. Trovo più rispettoso descriverla, la foto. Ognuno può immaginare quanto fredda sia la luce, al tramonto, quando il vento tira così forte.
2 - Quando vuoi : : Stringimi il cuore in un pugno
In tondo gira, attorno a un tombino, una coppetta di gelato vuota
spinta dal poco vento di giorni torridi.
Piena di formiche
rimangono aggrappate a residui appiccicosi cioccolato e vaniglia.
Golose o affamate, non cambia
ché più mangiano meno si tengono alle pareti.
Muoiono di vertigine, sazie, prima che il vento cessi del tutto.
3 - Preso male : : Faccio un incubo e lo continuo da sveglio
Ho il futuro in un sogno fuori fuoco
più che nei ricordi
lascio gocce sul comodino
pietre nei cassetti
sudori asciutti sul cuscino
Sul gradino di pietra dove mi siedo, al mattino
a guardare il bosco
lascio pelle morta
cellule d'odio che non ce l'hanno fatta, le più vecchie e stanche
Molecole che avrei dovuto sciogliere nel mare
ora restano incastrate tra le crepe fredde del granito.
Atomi di saggezza e rancore mi ricordano di
sapere che sapere è tutto sommato un piacere fine a se stesso.
Di alcuna utilità
non serve a viaggiare più veloci e comunque
ci si perde facile nel bosco
sul bosco
davanti a me l'ombra delle nuvole spinte dal vento ci disegna sopra
ci scrive in verde scuro
su foglie e sassi
sull'erba ci distendo uno sguardo in tralice
come volessi suggerire alla luce la giusta punteggiatura.
4 - Vado avanti : : Vogliono sedarti per riuscire a pestarti, ma noi restiamo in piedi
Al bosco gli racconto
gli dico di quanto pesino lacrime asciutte che non possono cadere giù
dei singhiozzi interrotti
sospiri mozzati
urla inascoltate.
Così ora sa dei passi incerti
di tremori senza fine.
Al bosco non importa cosa, quanto che.
Così si trasforma e mi guarda,
è un drago che m'incendia il cuore
schiude le uova del corvo.
Quello che mi ha fatto il nido nello stomaco.
Le parole volano fuori
oltre gli alberi e il cielo.
La voce vibra assieme ai fili d'erba e ai sassi.
Per ogni ramo, per tutte le foglie.
5 - Outro, Certe volte QCVC 6 : : è bene ricordare a chi parla che puoi avere tutti i soldi del mondo ma certe volte per stare a galla ancora bastano una voce, un piano e una chitarra.
Riposo all'ombra di un vecchio lenzuolo bianco tirato tra un tronco portato dalla mareggiata e un cespuglio di rosmarino.
Riposo finché ne ho per continuare a viaggiare.
Verso il sole
a passi lenti
ma regolari come il ticchettio di un orologio.
31 agosto 2016
sabbia&coca-cola 2016 : : domani ho l'esame del seme ma ancora non ho aperto libro
Clank! (Rumore di maniglia che cerca di aprirsi su una porta chiusa dall'interno)
Toc! Toc! - poi una voce spazientita -Aprite! Chi c'è lì dentro?Ehm...signora, ci sono io adesso...e non posso proprio aprirle
massì, ma facciamolo un piccolo passo indietro:
Quando hai figli anche senza avere il fisico, fai i salti mortali, trovi soluzioni immediate a problemi complessi, la vita cambia e diventano loro il centro del mondo. Trovi estremamente divertente, infine, avere a che fare con esseri piccoli, dalla testa enorme che parlano una lingua vagamente comprensibile e che comunque fanno discorsi da ubriaco.Nel caso in cui i figli non dovessi riuscire a farli diventa tutto molto complicato: medici, analisi, esami i più disparati, e disperati si ha a che fare con prescrizioni dai nomi che non promettono niente di buono.
Questa è una storia vera, realmente accaduta a un padre che credeva nella scienza, che tutto si sarebbe aggiustato e, soprattutto, che mai la realtà avrebbe superato la fantasia...ma tant'è. In un breve arco temporale, ossia dalle otto zero zero alle otto zero cinque ogni suo convincimento ebbe a traballare.
La non più giovane coppia con difficoltà riproduttive si trovò costretta a chiedere un consulto al reparto “Infertilità” di un noto ospedale della capitale. La location era tutta un programma, situato in un seminterrato con finestre vista sui tubi del riscaldamento centralizzato. La prima visita si era risolta in un colloquio e la revisione dei referti di una smodata quantità di analisi ed esami cui la signora si era sottoposta in precedenza e si era conclusa con un laconico: Per quanto riguarda la signora sembra sia tutto a posto, lei piuttosto – rivolgendosi al marito – venga domattina alle otto per l'esame del seme.
Così aveva detto l'anziana dottoressa direttrice del reparto, alle sue spalle una specializzanda occhialuta e cicciottella aveva annuito come a dire: vedrà...è in ottime mani e tutto andrà per il giusto verso.
Il giorno seguente, poco prima delle otto, il pover'uomo era posto di fronte allo sportello dell'infermiera di turno, un donnone con uno strano ghigno sulla faccia, quasi il presagio che nulla di buono s'approssimasse. Lui non ci fece caso.
Ehm...buongiorno
Mh!
Dovrei...esame del seme...stamattina...le otto…
Va bene...mi dia il campione
Ehm...Eh? Quale campione?
Nessuno le ha detto di portarlo da casa?
Ehm...nossignora
Va bene...tenga.
Ehm...cosa sono?
Chiavi...non ne ha mai viste?
Sì, ma chiavi di cosa?
Sono le chiavi del ripostiglio delle scope, tenga anche questo...è un contenitore sterile e se ne ha bisogno tenga pure questo catalogo del Postalmarket.
Ma...è seria?
Cosa credeva...di essere in uno di quei film americani col salottino, il privéé, la tivvù coi filmini porno? Vada! ...e torni col campione!
Il ripostiglio maleodorava di stracci ancora umidi, ingombro di scope, secchi e scopettoni ma, soprattutto, buio. Si fece coraggio, si aggiustò in modo da poter sfruttare quel poco di luce che veniva da una finestrella, sopra la porta. Cercò l'ispirazione tra le pagine del Postalmarket, andò diretto alla ricerca dell'intimo femminile. Giunto alle ciabatte da donna si andava diretti ai pigiami da uomo, si rese conto che qualcuno aveva strappato un tot di pagine, quelle utili. Buttò il catalogo, chiuse gli occhi, cercò nel suo residuo immaginario erotico sbiadito da una situazione ormai degenerata. Cominciò. Dopo qualche minuto di prove e tentativi si rese conto di esserci quasi.
Cioè..era lì.
Era proprio lì lì, quando…
Clank! Aprite! Chi c'è lì dentro?
Ehm...signora, ci sono io adesso...e non posso proprio aprirle
Avanti! Apri! Che devo fare il corridoio e mi servono straccio, secchio e scopettone.
Signora...adesso non si può...non...non...a proposito... Signora..mmhhh?
Cosa?
Quanti anni ha?
Cinquantaquattro, a Novembre...perché?
Me lo dica di nuovo...un po' più dolcemente, diciamo che ventimila lire sono sue se me lo ridice in modo un po' più sexi, eh?
Come?
Sì...come le signorine mezze ignude al telefono, di notte, in tivvù...ha presente?Cinquantaquattro, a novembre - con voce roca e un tantino imbarazzata - scorpione...e ventimila sono poche.
Signora...le signorine con voci moooolto più sexi della sua prendono milleduecento lire al minuto, incluso lo scatto alla risposta.
Ventimila è poco...facciamo cinquanta
Venticinque...
Trenta? Il costo del ticket.
Ok, andata...cosa indossa?
Beh...il camice azzurro da inserviente
Signo'...nzestamo a capì...mpo' de fantasia peffavòre
Ok...ho indosso un tubino nero.
Ohhh...brava, meglio…
Tacco dodici…
Ohhh...sì
Autoreggenti velate…
No! Quelle no…
Ok, aspetti...un attimo che mi risistemo la calza con la riga, sa la guepiere a volte fa i capricci
Mmmmhhh...sì, sì...così
Pizzo nero, sotto
Ohhh...mmmmhhh...sì..sì...sìììììì..ohhhh!
Uscì col contenitore non più sterile in una mano e le trentamila nell'altra, a malapena incrociarono gli sguardi, lei prese i soldi ed entrò nel ripostiglio, lui prese il corridoio.
A un tratto si fermò, si voltò, tornò indietro e la baciò.
Lei rispose al bacio.
Toc! Toc! - poi una voce spazientita -Aprite! Chi c'è lì dentro?Ehm...signora, ci sono io adesso...e non posso proprio aprirle
massì, ma facciamolo un piccolo passo indietro:
Quando hai figli anche senza avere il fisico, fai i salti mortali, trovi soluzioni immediate a problemi complessi, la vita cambia e diventano loro il centro del mondo. Trovi estremamente divertente, infine, avere a che fare con esseri piccoli, dalla testa enorme che parlano una lingua vagamente comprensibile e che comunque fanno discorsi da ubriaco.Nel caso in cui i figli non dovessi riuscire a farli diventa tutto molto complicato: medici, analisi, esami i più disparati, e disperati si ha a che fare con prescrizioni dai nomi che non promettono niente di buono.
Questa è una storia vera, realmente accaduta a un padre che credeva nella scienza, che tutto si sarebbe aggiustato e, soprattutto, che mai la realtà avrebbe superato la fantasia...ma tant'è. In un breve arco temporale, ossia dalle otto zero zero alle otto zero cinque ogni suo convincimento ebbe a traballare.
La non più giovane coppia con difficoltà riproduttive si trovò costretta a chiedere un consulto al reparto “Infertilità” di un noto ospedale della capitale. La location era tutta un programma, situato in un seminterrato con finestre vista sui tubi del riscaldamento centralizzato. La prima visita si era risolta in un colloquio e la revisione dei referti di una smodata quantità di analisi ed esami cui la signora si era sottoposta in precedenza e si era conclusa con un laconico: Per quanto riguarda la signora sembra sia tutto a posto, lei piuttosto – rivolgendosi al marito – venga domattina alle otto per l'esame del seme.
Così aveva detto l'anziana dottoressa direttrice del reparto, alle sue spalle una specializzanda occhialuta e cicciottella aveva annuito come a dire: vedrà...è in ottime mani e tutto andrà per il giusto verso.
Il giorno seguente, poco prima delle otto, il pover'uomo era posto di fronte allo sportello dell'infermiera di turno, un donnone con uno strano ghigno sulla faccia, quasi il presagio che nulla di buono s'approssimasse. Lui non ci fece caso.
Ehm...buongiorno
Mh!
Dovrei...esame del seme...stamattina...le otto…
Va bene...mi dia il campione
Ehm...Eh? Quale campione?
Nessuno le ha detto di portarlo da casa?
Ehm...nossignora
Va bene...tenga.
Ehm...cosa sono?
Chiavi...non ne ha mai viste?
Sì, ma chiavi di cosa?
Sono le chiavi del ripostiglio delle scope, tenga anche questo...è un contenitore sterile e se ne ha bisogno tenga pure questo catalogo del Postalmarket.
Ma...è seria?
Cosa credeva...di essere in uno di quei film americani col salottino, il privéé, la tivvù coi filmini porno? Vada! ...e torni col campione!
Il ripostiglio maleodorava di stracci ancora umidi, ingombro di scope, secchi e scopettoni ma, soprattutto, buio. Si fece coraggio, si aggiustò in modo da poter sfruttare quel poco di luce che veniva da una finestrella, sopra la porta. Cercò l'ispirazione tra le pagine del Postalmarket, andò diretto alla ricerca dell'intimo femminile. Giunto alle ciabatte da donna si andava diretti ai pigiami da uomo, si rese conto che qualcuno aveva strappato un tot di pagine, quelle utili. Buttò il catalogo, chiuse gli occhi, cercò nel suo residuo immaginario erotico sbiadito da una situazione ormai degenerata. Cominciò. Dopo qualche minuto di prove e tentativi si rese conto di esserci quasi.
Cioè..era lì.
Era proprio lì lì, quando…
Clank! Aprite! Chi c'è lì dentro?
Ehm...signora, ci sono io adesso...e non posso proprio aprirle
Avanti! Apri! Che devo fare il corridoio e mi servono straccio, secchio e scopettone.
Signora...adesso non si può...non...non...a proposito... Signora..mmhhh?
Cosa?
Quanti anni ha?
Cinquantaquattro, a Novembre...perché?
Me lo dica di nuovo...un po' più dolcemente, diciamo che ventimila lire sono sue se me lo ridice in modo un po' più sexi, eh?
Come?
Sì...come le signorine mezze ignude al telefono, di notte, in tivvù...ha presente?Cinquantaquattro, a novembre - con voce roca e un tantino imbarazzata - scorpione...e ventimila sono poche.
Signora...le signorine con voci moooolto più sexi della sua prendono milleduecento lire al minuto, incluso lo scatto alla risposta.
Ventimila è poco...facciamo cinquanta
Venticinque...
Trenta? Il costo del ticket.
Ok, andata...cosa indossa?
Beh...il camice azzurro da inserviente
Signo'...nzestamo a capì...mpo' de fantasia peffavòre
Ok...ho indosso un tubino nero.
Ohhh...brava, meglio…
Tacco dodici…
Ohhh...sì
Autoreggenti velate…
No! Quelle no…
Ok, aspetti...un attimo che mi risistemo la calza con la riga, sa la guepiere a volte fa i capricci
Mmmmhhh...sì, sì...così
Pizzo nero, sotto
Ohhh...mmmmhhh...sì..sì...sìììììì..ohhhh!
Uscì col contenitore non più sterile in una mano e le trentamila nell'altra, a malapena incrociarono gli sguardi, lei prese i soldi ed entrò nel ripostiglio, lui prese il corridoio.
A un tratto si fermò, si voltò, tornò indietro e la baciò.
Lei rispose al bacio.
26 novembre 2015
No agli ultràs moderni, ovvero l’Isola (nel senso del bar) e Montepulciano (nel senso del vino)
Lui, Hobbs, mi dice:; «scrivi!»
pare facile...
anzitutto chiudete quella porta ché il freddo è arrivato
poi, secondariamente, ditemi chi ha messo nella stessa playlist i Bee Gees e Jimi Hendrix.
Brividi e distonie musicali non [si] conciliano.
Sgomento, mi accorgo che il prodotto di un piccolo notes e il Montepulciano risulta maggiormente prossimo a un esempio accademico di disgrafìa piuttosto che a qualcosa che, adeguatamente rivisto e corretto, risulti degno di pubblicazione almeno su un blog.
Perché è complicato rileggersi
in senso lato
simbolicamente
se non ti sei capito alla prima botta è difficile poi recuperare.
Le lettere si mescolano, le parole cambiano.
Il senso non è più lo stesso, i sensi si allarmano e l'animo si scuote.
Almeno lui si muove e si scalda.
Chiudete quella porta
manca poco all'allouìn e io di terrori
orrori
motori
odori
afrori
ne ho abbastanza.
She has the blues
e un rossetto acceso
troppo
pure se è notte da un pezzo e a vederci chiaro ci sarebbe solo da guadagnarci.
Ho messo gli occhiali scuri e posato per una foto
testimonial che questo non è un locale per soli giovani.
Anche noi maturi, quantunque irrisolti, possiamo permetterci di.
La giovane fotografa cerca un suo punto di vista
si muove
troppo
quanto corta è la gonna,
troppo.
Per quel che mi riguarda la serata potrebbe anche finire qui,
congelare l'attimo
cazzo di freddo, chiudete la porta!
Epifanìe, visioni
il rossetto è acceso forse per smorzare le chiacchiere distese come fondo, rumore di.
She has the blues
lo condivide
ci sarebbe solo da allungare una mano immaginaria e prenderlo.
La mano non risponde
epperò,
all'appello.
Se ne sta lì a immaginarsi posata su quella coscia, scoperta dal troppo movimento di una fotografa alla ricerca dello scatto perfetto
corta di gonna
lunga di gambe, bella come il sole
ma è sempre notte fonda
[è bene ricordarlo]
Passa il tempo e il mio bicchiere si svuota man mano [immaginaria]
Il tempo è un ubriacone e la mia grafìa vieppiù incomprensibile.
Hobbs mi ha detto: «scrivi!»
Io obbedisco, soldatino massiccio e incazzato, ancora.
E non fa bene, no.
Blandire vecchi malumori col Montepulciano, all'Isola, col blues, il chiacchiericcio, le labbra accese...questo sì, è sano.
E lasciare via libera a sproloqui seppur in forma scritta.
Anche quello è sano.
Cose che allungano la vita, le gonne corte.
25 agosto 2015
Sabbia&coca-cola 2015 : : Mani di Luce, ovvero quanto successe a un uomo grazie a un'acacia
Si prendano due ghiaccioli dal freezer, li si pongano in un piatto, li si lascino lì mentre si legge:
L'acacia Nilotica, ovvero del Nilo, fiume quanto il Trigno ma un tantinello più gruss, è un albero abbastanza alto, che fa abbastanza ombra, abbastanza spinoso, abbastanza conosciuto nei tempi in medicina, quella medicina primordiale ancora un pizzico vicina alla magìa.
Utile per curare le ferite, l'essudato della corteccia era usato contro l'insonnia e il dolore. I frutti, se mangiati in quantità risultano esser velenosi. Nella giusta quantità, scacciano gli spiriti maligni.
Quell'estate papà era irrequieto.
Camminava in tondo come un cavallo ancora mai montato, chiuso nel recinto.
Lo guardavamo restandocene all'ombra di un'acacia, spinosa come diventava lui quando uno di noi, la mamma di norma, gli chiedeva cosa lo tormentasse.
Mio padre era un uomo di scienza, e di fede. Presente, pronto ad ascoltare e consigliare per il giusto verso. Si trattasse di costruire un accampamento, una casa al villaggio accanto all'oasi o calcolare una distanza e progettare un viaggio nel deserto. Aveva letto molti libri, in gioventù, libri di algebra, e seguito per anni in un tirocinio sfiancante un vecchio conciaossa a Basrah, una settimana di viaggio più a nord. Io non c'ero mai stata, una città non l'avevo mai vista. E nemmeno il mare.
Sapevo di avere un fratello, certo, mio nonno aveva avuto cura di raccontarmi fin da subito, appena raggiunta l'età della ragione, come realmente fossero andate le cose, ma al di là di ciò sentivo di avere un fratello. Gemello.
Nascosto da qualche parte nel deserto coi predoni che se l'erano portato via il giorno che assalirono la nostra carovana di ritorno dalla città.
Mio padre aveva provato a difenderci ma subito era caduto vittima di scimitarre tanto affilate quanto ricurve, e poi era toccato a mia madre. Io, tre anni appena, me ne restai nascosto in un doppio fondo del carro. Mia madre mi ci aveva subito spinto dentro appena accortasi del pericolo. Non fece in tempo con mio fratello. Se lo portarono via assieme al poco denaro guadagnato al mercato e alle stoffe prese in cambio delle galline.
Al pari di sapere di un fratello gemello che mi somiglia come una goccia d'acqua, so bene come le cose che ti accadono nella vita riescano a plasmarti e disegnarti come l'acqua fa con la roccia.
Le volte che ci penso diventa buio dentro e niente posso fare se non camminare, in tondo, senza requie. E starmene da solo a non sentire nessuno. Mi dicono che mi basti guardarti negli occhi per allontanarti, quando mi sento così. Mi dicono che è come se mi crescessero le spine addosso, come a un'acacia.
Mi chiamano Al-jabhr, il conciaossa, o il matematico ché la parola che ci definisce è la stessa.
Ho avuto un certo numero di allievi ai quali tramandare l'arte di aggiustare arti, ricomporre fratture, raddrizzare schiene piegate dal lavoro e fare calcoli, usare i numeri, cose immateriali, per comprendere le cose reali, quelle del mondo.
Qui nel deserto usiamo la stessa parola sia che si tratti di calcoli che di sistemare membra.
Al-jhabr
Algebra.
Ad ogni buon conto intendiamo comunque “mettere le cose a posto” ordinarle nuovamente di modo che ricomincino a funzionare
secondo un criterio noto forse solo al cielo
così come è stato il cielo, sicuro, a regalarmi l'allievo più capace che potessi avere al seguito.
Veniva dal deserto
asciutto
intelligente
anzi
acuto
come le spine di un'acacia.
Quell'estate mio marito era irrequieto.
Sarà stata la carestia, le capre e quella strana malattia che le ammazzava tutte, oppure non saprei dire.
Certe volte provavo a chiedergli cosa fosse a tormentarlo.
Si irrigidiva, respirava a tratti, come piccoli singulti, poi continuava a camminare, senza requie.
Altre volte mi ci sono solo seduta accanto, le volte che se ne stava a pensare sotto l'ombra dell'acacia, sperando mi dicesse qualcosa. Alla fine riuscivo solo a poggiare la testa sulla sua spalla e mi sembrava quasi il suo respiro si facesse regolare, ma non di più. O forse era l'acacia.
Quell'estate fu l'estate che partì per la città per cercare suo fratello.
Quell'estate fu l'estate che tornò senza più le mani.
C'è uno schema noto, un modello ricorrente nei racconti, attorno al quale si son scritti libri, narrate storie e girati film. Lo scambio di persona, l'errore e l'equivoco. Qui non si fa eccezione.
In due parole il conciaossa spinoso come un'acacia viene ingiustamente accusato di un furto in città, commesso viceversa dal fratello gemello omozigote. Cioè uguale.
E se è vero come è vero che la legge non ammette ignoranza spesso chi poi la applica, la legge, a causa dell'ignoranza commette errori.
Mai invece ne commette il boia, quello nze sbaja mai, si trattasse di staccare teste dal collo o mani dai polsi.
La pena prevista per i ladri.
Una pena per chi con quelle stesse mani aveva portato sollievo alle sofferenze altrui.
E alla pena si sostituì il dolore, già, perché una mano sensibile ne sente di più, e quello dell'arto fantasma è un dolore vero, reale. Costante.
Ogni tanto si guardava le mani dolenti ma quelle non c'erano più, così doveva ricorrere sempre più di frequente alla corteccia dell'acacia che mitigava quel dolore e gli concedeva qualche ora di sonno.
C'è un altro topos nei racconti, un altro elemento ricorrente, quello del viaggio. Meglio, del viaggio e del deserto, i quaranta giorni di Gesù, la vendetta di Beatrix di Kill Bill, l'incipit di Breaking Bad, Paris Texas di Wim Wenders e tante altre storie.
Anche in questo caso noi non si fa eccezione:
per ritrovar sé stesso o un po' di pace, per non sentire più il dolore oppure per morire.
Questo è il deserto, il significato simbolico, vivi se dentro hai ancora la voglia e torna migliore, torna pulito, torna più forte, torna pronto e accada pure quel che deve.
Era appena l'aurora quando se ne andò lasciando moglie e figlia, con sé solo acqua e frutti e corteccia d'acacia.
L'acqua e la corteccia terminarono dopo qualche giorno, ricominciò il dolore e urlò, nel deserto dove nessuno avrebbe potuto udirlo. Urlò e ancora urlò, così forte e così a lungo che infine cadde, esausto.
Mangiare frutti d'acacia in quantità provocava la morte, lo sapeva bene e così fece. Poi non sentì più nulla.
Lo scosse un brivido forte, era freddo, era notte, sentiva però voci e lamenti di cammelli. Infine sentì il dolore.
“Se ti fa male è segno che sei ancora vivo”
Questo il suo vecchio maestro diceva spesso ai suoi pazienti.
Riuscì ad aprire gli occhi, si guardò le mani. Era notte, buia e senza luna. Le sue mani erano lì, attaccate ancora ai polsi e risplendevano. Erano mani di luce.
Una carovana di mercanti lo aveva trovato, lo avrebbe curato, dissetato e nutrito. Nel buio avevano creduto di scorgere due luci tanto brillanti che li avevano guidati fin lì. Non c'erano luci, solo un uomo in fin di vita. Senza più le mani.
Mio padre non ha le mani. Mio padre era un conciaossa, un Al-jahbr.
Davanti la nostra casa, sul margine dell'oasi, all'ombra dell'acacia c'è sempre tanta gente. Gente strana.
Vengono dal deserto e dalla città. Vengono da tutto il califfato.
Vestono di stracci oppure seta, poveri, ricchi, mercanti e caprai, tutti parlano malamente, non parlano affatto oppure è come se non ti sentissero. Mamma dice che sono pazzi portati qui dai parenti affinché papà li guarisca.
Mio padre non ha più le mani ma certe volte sembra come poggiarle sulla testa di quegli sventurati e se ne sta lì, immobile, e pure loro. Certe volte si addormentano, anche.
Poi gli da tre piccoli frutti di acacia, quelli masticano lenti, si alzano dopo un po', parlano, comunque ci provano e a me dopo non mi sembrano più così strani.
Mamma dice che papà ha mani immateriali, mani fatte apposta per aggiustare cose immateriali pure loro. Mamma dice che con quelle mani adesso non può più aggiustare ossa. Però può aggiustare anime.
Proprio come mio padre l'acacia avrà pure le spine ma mi sa che è vera questa cosa che i suoi frutti scacciano gli spiriti maligni.
Quest'estate mio padre ha detto che mi porterà in città, a lezione dal vecchio Algebrista. Dice che se dovessi piacergli potrebbe pure prendermi come allieva. E comunque, anche se non dovesse essere, poi ha promesso che mi porterà a vedere il mare.
E adesso non mi dite che sono solo storie, che la matematica è un'altra cosa, che volete l'evidenza scientifica del mio fare il conciaossa. Di quale scienza parlate? Forse di quella che si basa su una matematica che vi obbliga a credere che uno più uno faccia sempre due?
No! Non è vero, non è così.
Un ghiacciolo più un ghiacciolo non fanno due ghiaccioli
il tempo e la forza di una storia
e resta solo
un'unica
piccola
pozzanghera.
L'acacia Nilotica, ovvero del Nilo, fiume quanto il Trigno ma un tantinello più gruss, è un albero abbastanza alto, che fa abbastanza ombra, abbastanza spinoso, abbastanza conosciuto nei tempi in medicina, quella medicina primordiale ancora un pizzico vicina alla magìa.
Utile per curare le ferite, l'essudato della corteccia era usato contro l'insonnia e il dolore. I frutti, se mangiati in quantità risultano esser velenosi. Nella giusta quantità, scacciano gli spiriti maligni.
Quell'estate papà era irrequieto.
Camminava in tondo come un cavallo ancora mai montato, chiuso nel recinto.
Lo guardavamo restandocene all'ombra di un'acacia, spinosa come diventava lui quando uno di noi, la mamma di norma, gli chiedeva cosa lo tormentasse.
Mio padre era un uomo di scienza, e di fede. Presente, pronto ad ascoltare e consigliare per il giusto verso. Si trattasse di costruire un accampamento, una casa al villaggio accanto all'oasi o calcolare una distanza e progettare un viaggio nel deserto. Aveva letto molti libri, in gioventù, libri di algebra, e seguito per anni in un tirocinio sfiancante un vecchio conciaossa a Basrah, una settimana di viaggio più a nord. Io non c'ero mai stata, una città non l'avevo mai vista. E nemmeno il mare.
Sapevo di avere un fratello, certo, mio nonno aveva avuto cura di raccontarmi fin da subito, appena raggiunta l'età della ragione, come realmente fossero andate le cose, ma al di là di ciò sentivo di avere un fratello. Gemello.
Nascosto da qualche parte nel deserto coi predoni che se l'erano portato via il giorno che assalirono la nostra carovana di ritorno dalla città.
Mio padre aveva provato a difenderci ma subito era caduto vittima di scimitarre tanto affilate quanto ricurve, e poi era toccato a mia madre. Io, tre anni appena, me ne restai nascosto in un doppio fondo del carro. Mia madre mi ci aveva subito spinto dentro appena accortasi del pericolo. Non fece in tempo con mio fratello. Se lo portarono via assieme al poco denaro guadagnato al mercato e alle stoffe prese in cambio delle galline.
Al pari di sapere di un fratello gemello che mi somiglia come una goccia d'acqua, so bene come le cose che ti accadono nella vita riescano a plasmarti e disegnarti come l'acqua fa con la roccia.
Le volte che ci penso diventa buio dentro e niente posso fare se non camminare, in tondo, senza requie. E starmene da solo a non sentire nessuno. Mi dicono che mi basti guardarti negli occhi per allontanarti, quando mi sento così. Mi dicono che è come se mi crescessero le spine addosso, come a un'acacia.
Mi chiamano Al-jabhr, il conciaossa, o il matematico ché la parola che ci definisce è la stessa.
Ho avuto un certo numero di allievi ai quali tramandare l'arte di aggiustare arti, ricomporre fratture, raddrizzare schiene piegate dal lavoro e fare calcoli, usare i numeri, cose immateriali, per comprendere le cose reali, quelle del mondo.
Qui nel deserto usiamo la stessa parola sia che si tratti di calcoli che di sistemare membra.
Al-jhabr
Algebra.
Ad ogni buon conto intendiamo comunque “mettere le cose a posto” ordinarle nuovamente di modo che ricomincino a funzionare
secondo un criterio noto forse solo al cielo
così come è stato il cielo, sicuro, a regalarmi l'allievo più capace che potessi avere al seguito.
Veniva dal deserto
asciutto
intelligente
anzi
acuto
come le spine di un'acacia.
Quell'estate mio marito era irrequieto.
Sarà stata la carestia, le capre e quella strana malattia che le ammazzava tutte, oppure non saprei dire.
Certe volte provavo a chiedergli cosa fosse a tormentarlo.
Si irrigidiva, respirava a tratti, come piccoli singulti, poi continuava a camminare, senza requie.
Altre volte mi ci sono solo seduta accanto, le volte che se ne stava a pensare sotto l'ombra dell'acacia, sperando mi dicesse qualcosa. Alla fine riuscivo solo a poggiare la testa sulla sua spalla e mi sembrava quasi il suo respiro si facesse regolare, ma non di più. O forse era l'acacia.
Quell'estate fu l'estate che partì per la città per cercare suo fratello.
Quell'estate fu l'estate che tornò senza più le mani.
C'è uno schema noto, un modello ricorrente nei racconti, attorno al quale si son scritti libri, narrate storie e girati film. Lo scambio di persona, l'errore e l'equivoco. Qui non si fa eccezione.
In due parole il conciaossa spinoso come un'acacia viene ingiustamente accusato di un furto in città, commesso viceversa dal fratello gemello omozigote. Cioè uguale.
E se è vero come è vero che la legge non ammette ignoranza spesso chi poi la applica, la legge, a causa dell'ignoranza commette errori.
Mai invece ne commette il boia, quello nze sbaja mai, si trattasse di staccare teste dal collo o mani dai polsi.
La pena prevista per i ladri.
Una pena per chi con quelle stesse mani aveva portato sollievo alle sofferenze altrui.
E alla pena si sostituì il dolore, già, perché una mano sensibile ne sente di più, e quello dell'arto fantasma è un dolore vero, reale. Costante.
Ogni tanto si guardava le mani dolenti ma quelle non c'erano più, così doveva ricorrere sempre più di frequente alla corteccia dell'acacia che mitigava quel dolore e gli concedeva qualche ora di sonno.
C'è un altro topos nei racconti, un altro elemento ricorrente, quello del viaggio. Meglio, del viaggio e del deserto, i quaranta giorni di Gesù, la vendetta di Beatrix di Kill Bill, l'incipit di Breaking Bad, Paris Texas di Wim Wenders e tante altre storie.
Anche in questo caso noi non si fa eccezione:
per ritrovar sé stesso o un po' di pace, per non sentire più il dolore oppure per morire.
Questo è il deserto, il significato simbolico, vivi se dentro hai ancora la voglia e torna migliore, torna pulito, torna più forte, torna pronto e accada pure quel che deve.
Era appena l'aurora quando se ne andò lasciando moglie e figlia, con sé solo acqua e frutti e corteccia d'acacia.
L'acqua e la corteccia terminarono dopo qualche giorno, ricominciò il dolore e urlò, nel deserto dove nessuno avrebbe potuto udirlo. Urlò e ancora urlò, così forte e così a lungo che infine cadde, esausto.
Mangiare frutti d'acacia in quantità provocava la morte, lo sapeva bene e così fece. Poi non sentì più nulla.
Lo scosse un brivido forte, era freddo, era notte, sentiva però voci e lamenti di cammelli. Infine sentì il dolore.
“Se ti fa male è segno che sei ancora vivo”
Questo il suo vecchio maestro diceva spesso ai suoi pazienti.
Riuscì ad aprire gli occhi, si guardò le mani. Era notte, buia e senza luna. Le sue mani erano lì, attaccate ancora ai polsi e risplendevano. Erano mani di luce.
Una carovana di mercanti lo aveva trovato, lo avrebbe curato, dissetato e nutrito. Nel buio avevano creduto di scorgere due luci tanto brillanti che li avevano guidati fin lì. Non c'erano luci, solo un uomo in fin di vita. Senza più le mani.
Mio padre non ha le mani. Mio padre era un conciaossa, un Al-jahbr.
Davanti la nostra casa, sul margine dell'oasi, all'ombra dell'acacia c'è sempre tanta gente. Gente strana.
Vengono dal deserto e dalla città. Vengono da tutto il califfato.
Vestono di stracci oppure seta, poveri, ricchi, mercanti e caprai, tutti parlano malamente, non parlano affatto oppure è come se non ti sentissero. Mamma dice che sono pazzi portati qui dai parenti affinché papà li guarisca.
Mio padre non ha più le mani ma certe volte sembra come poggiarle sulla testa di quegli sventurati e se ne sta lì, immobile, e pure loro. Certe volte si addormentano, anche.
Poi gli da tre piccoli frutti di acacia, quelli masticano lenti, si alzano dopo un po', parlano, comunque ci provano e a me dopo non mi sembrano più così strani.
Mamma dice che papà ha mani immateriali, mani fatte apposta per aggiustare cose immateriali pure loro. Mamma dice che con quelle mani adesso non può più aggiustare ossa. Però può aggiustare anime.
Proprio come mio padre l'acacia avrà pure le spine ma mi sa che è vera questa cosa che i suoi frutti scacciano gli spiriti maligni.
Quest'estate mio padre ha detto che mi porterà in città, a lezione dal vecchio Algebrista. Dice che se dovessi piacergli potrebbe pure prendermi come allieva. E comunque, anche se non dovesse essere, poi ha promesso che mi porterà a vedere il mare.
E adesso non mi dite che sono solo storie, che la matematica è un'altra cosa, che volete l'evidenza scientifica del mio fare il conciaossa. Di quale scienza parlate? Forse di quella che si basa su una matematica che vi obbliga a credere che uno più uno faccia sempre due?
No! Non è vero, non è così.
Un ghiacciolo più un ghiacciolo non fanno due ghiaccioli
il tempo e la forza di una storia
e resta solo
un'unica
piccola
pozzanghera.
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